domenica 30 dicembre 2012

MENTE APERTA all'ARIA APERTA








Ho cominciato a 11 anni: ero magrettina, anemica, non mi piaceva la carne. A scuola la mia insegnante di matematica mi obbligava a farle vedere tutti i giorni il diario in cui i miei dovevano scrivere se il giorno prima avevo mangiato a sufficienza. Era il 1966 e mio fratello e mia cognata, tra i primissimi diplomati ISEF, avviavano in città la prima attività di ginnastica per i bambini: era la soluzione per farmi venire appetito (cosa che ha funzionato assai bene e mi è durata per tutta la vita, anche ora che ne avrei meno bisogno!).




Ricordo con molto piacere il rituale della tuta e della maglietta della squadra, i giochi di riscaldamento tutti insieme, il ritmo della lezione, l’entusiasmo di Anna che ci insegnava e sosteneva, le chiacchiere in spogliatoio, i bambini più piccoli che via via si inserivano, il gusto di percepire capacità che si sviluppavano e il piacere di sentire il mio corpo più forte e resistente.



Un paio di anni dopo, quando ci allenavamo per le prime campestri correndo il tardo pomeriggio nei viali del Lungo Ticino, ricordo piacere e fatica e il potere del gruppo che vinceva la pigrizia individuale; e poi la sensazione di benessere nell’arrivare in fondo, la soddisfazione di riuscire a fare percorsi sempre più lunghi sentendo di avere fiato e resistenza. Il piacere di correre anche nella nebbia e di vedere le luci della sera sul Ticino e sul ponte.

E’ stato tutto bello e piacevole fino ai 14 anni, quando ancora avevo tempo di andare in bicicletta fino al Campo CONI dall’altro lato della città un paio di volte la settimana, con qualche gara il sabato o la domenica e solo in certi periodi. E’ stato orribile durante il ginnasio, quando si doveva con ansia ritagliare due-tre ore al giorno almeno 3-4 volte la settimana per “rimanere nel giro”, quando si contava solo se “facevi i tempi” e quando si stava a saltare finchè avevi superato il record precedente. Ricordo l’ansia di prestazione, i lividi sulle gambe contro l’asticella del salto in alto e le botte sulla schiena quando si provava il Fosbury. Delle gare di quel periodo ricordo solo il patema d’animo.

Ho smesso.

Dai 15 ai 33 anni credo di non aver mai più messo una tuta. Ciò che mi resta in mente di quel periodo sono delle lunghe camminate in montagna qualche volta d’estate: per il resto, vita da ufficio, riunioni su riunioni, infiniti spostamenti in macchina, in autobus e in treno.









Ho ricominciato a muovermi quando ho scoperto il mondo dei cavalli: quello vero, in una grande vallata dove 60 argentini di tutti i colori, a dir la verità resi piuttosto omogenei dal comune strato di polvere e terra sui mantelli, se ne stavano a pascolare alzando ogni tanto la testa per guardare noi appoggiati alle staccionate, che stavamo a fissarli meravigliati dalla loro potenza e dalla loro bellezza. Mi sono ri-mossa per scendere nei campi a prenderli, per spostarli da un campo all’altro, per inseguirli in salita col secchio del mangiare quando ancora non avevo imparato che sarebbe stato meglio stare fermi ad aspettare che si avvicinassero da soli. Ma questo è un altro capitolo...


Ripensando alla mia inappetenza e alla obesità dei nostri ragazzini del 2000, con i danni fisici materiali e sociali che ne conseguono, credo che l’emergenza sport sia molto più forte oggi di allora. Con l’aggravante che per un bambino-ciccione muoversi tra gli altri, magari in una squadra, è ancora più frustrante e imbarazzante: è per questo che le squadre, di qualsiasi sport si tratti, sono fatte da ragazzini “atletici” mentre i bambini-ciccioni stanno sempre di più a ingrassare alla televisione con la merendina in mano.
Se poi pensiamo al vecchio detto “mens sana in corpore sano”, non aveva poi tutti i torti la mia insegnante di matematica, che vedendomi a volte stanca e distratta si preoccupava della mia alimentazione (che, purtroppo per me, a quei tempi si traduceva nella odiatissima bistecca!).
Quanto abbiamo staccato la testa dal corpo in questi quarant’anni, nonostante gli studi sempre più accurati sulla strettissima relazione tra movimento, sviluppo cerebrale e capacità di provare e gestire le emozioni? In base ad uno studio dell’UNESCO, negli USA il movimento dei bambini dal 3° al 17° anno di vita diminuisce del 75%; nella stessa proporzione diminuiscono anche i rendimenti scolastici e aumentano le difficoltà di apprendimento. 


Quanto, per correre ai ripari, stiamo condizionando vita e orari di tutta la famiglia per arrivare in tempo in modo nevrotico all’ora di danza, calcio, tennis, allenamento, partita, gara, piscina, palestra? Il tutto rigorosamente al chiuso di un impianto sportivo, tra il puzzo di sudore e l’effluvio dei deodoranti all’ultima moda?

La cultura dell’infanzia passa ormai per gli spazi-gioco dei centri commerciali, in cui gonfiabili e “pallestre” (le piscine di palline colorate malamente scopiazzate dalla geniale originale Pallestra della Favelliana) non sono proprio il massimo in termini di educazione al corpo e allo sport. Vediamo un sempre maggior numero di ragazzini incapaci di tenere in mano come si deve una penna o una forchetta, incapaci di reggere mezz’ora seduti a tavola e a scuola, incapaci di tenere l’attenzione per più di cinque minuti, incapaci di apparecchiare e sparecchiare, incapaci di litigare con i compagni con una sana scazzottata.

Sono convinta che sia urgente "rieducare" al gioco e al movimento, tenere sveglia l'attenzione, migliorare coordinamento corporeo e motricità fine e potenziare le abilità scolastiche compromesse da cultura e abitudini che non prevedono più le capriole nei prati, i salti delle staccionate, le arrampicate sugli alberi e la capacità di usare occhi orecchie naso e pelle per cavarsela.


Vorrei che i miei nipoti
...
continuassero a godere
nel sapersi arrotolare gli spaghetti sulla forchetta!